Diversa
Per F., a cui è stato insegnato che essere “diversi” è un male. E nonostante questo, sta provando a costruire una vita che le assomigli.
“I had an aching sense that our time is short, shorter than we ever know,
shorter as a morning run, and I wanted mine to be meaningful.
And purposeful. And creative. And important. Above all... different.”
Phil Knight
Hai mai provato la sensazione di essere altro?
Non meglio. Non peggio. Semplicemente… altro.
La prima volta che ho avuto questa sensazione avrò avuto più o meno 4 anni.
Ero all’asilo, me lo ricordo come fosse ieri (ed è strano, perché a quell’età i ricordi dovrebbero essere sfumati).
La maestra Mirella - che adoravo… chissà che fine ha fatto - mi si avvicinò.
Io ero a capo chino su un foglio, intenta a disegnare chissà cosa.
A quell’epoca io e i pastelli colorati eravamo un tutt’uno. Pensavo sarei diventata una disegnatrice professionista. Non avevo messo in conto che, poco meno di dieci anni dopo, il professore d’arte delle scuole medie, a furia di chiedere 4 tavole fisse a settimana, mi avrebbe fatto venire lo schifo di disegnare.
Ma non ci distraiamo, eravamo alla maestra Mirella e a me immersa nel mio mondo.
Si accostò al banco dov’ero seduta, accovacciandosi per arrivare alla mia altezza nana.
E con tono gentile mi disse: “Laura… non vuoi andare anche tu a giocar fuori? I tuoi compagni di classe stanno correndo giù in cortile”.
Senza distogliere lo sguardo dal foglio che avevo davanti, le risposi:
“No, sto bene dove sono.”
Continuavo a spostare il pastello avanti e indietro. Sentivo lo sguardo della maestra fisso su di me e un silenzio che pesava di qualcosa.
Strano come anche da bambini si possa cogliere il fardello delle parole che non si dicono, quelle che restano sospese nell’aria, senza andarsene davvero. Anche se non se ne comprende appieno il significato.
Mirella mi guardò per qualche secondo. Poi, senza dir niente, si alzò, lasciandomi da sola.
Per un istante, ebbi la sensazione di aver detto o fatto qualcosa di sbagliato, o comunque non “normale” per la mia età.
Chi mai avrebbe voluto restarsene da solo in aula, con una giornata di sole e decine di altri bambini a rincorrersi per prati?
Il peso di essere diversa
Gli anni passavano, ma la situazione non cambiava.
Alle scuole medie ero quella che studiava, che non diceva parolacce, che non usciva, che aveva pochi amici.
Al liceo continuavo ad essere quella che studiava, quella che usciva ma tornava troppo presto, quella troppo calma per essere una ragazza in piena adolescenza.
L’università ha poi sancito definitivamente il mio stato di pecora nera, dato che alla fine dei cinque anni accademici sono stata forse l’unica del mio corso a non intraprendere un dottorato o una scuola di specializzazione.
L’unica che s’era rotta le balle di star chiusa in un laboratorio, e aveva deciso di cambiar strada.
Nel frattempo, quel senso di altro cresceva insieme a me.
Non sapevo come muovermi.
Avevo l’impressione che tutti gli altri, nel mondo attorno, avessero ricevuto un manuale di istruzioni che a me non era mai arrivato.
Partecipavo a conversazioni di cui non mi fregava una ceppa.
Cercavo risposte a domande di cui gli altri nemmeno sapevano l’esistenza.
E mi sentivo fare spesso lo stesso commento: “Perché sei così?”, dove “così” poteva essere uno qualsiasi fra questi ed altri aggettivi: sensibile, strana, seria, sognatrice, idealista, ribelle e via dicendo.
Ero sempre “qualcosa” di diverso, ma in ogni caso qualcosa “d’altro”.
C’è una solitudine particolare nel sentirsi diversi.
E non è quella drammatica dei film, dove piangi la sera sola nel letto (o almeno, non sempre).
È qualcosa di molto più sottile, e talvolta più subdolo.
Quella sensazione di essere in mezzo alla gente e sentirsi comunque separati.
Di parlare e non essere realmente ascoltati.
Di ridere, ma con un ritardo di qualche secondo, perché stai ancora processando se quella cosa sia davvero divertente o meno.
È la solitudine di chi vede il mondo da un’angolazione diversa e non riesce a spiegare agli altri cosa nota da lì.
Vorrei dirti che c’è un qualche vanto in questa prospettiva singolare, e invece no.
Così finisce che per sopravvivere ti adatti.
Smussi angoli di te per incastrarli in spazi angusti, spiragli liberi lasciati incustoditi da altri.
Parli meno di quello che ti interessa, ti limiti ad ascoltare di più.
Non fingi entusiasmo per le cose che non ti toccano, ma resti nella tua pacata indifferenza, con un sorriso a mezza bocca mentre osservi gli altri vivere vite che tu non capirai mai. Magari invidiandoli, perché da quel lato lì della barricata sembra tutto un po’ più semplice e un po’ più esaltante.
E sai cosa? Funziona. Più o meno.
Funziona alla stessa maniera di quando indossi scarpe della taglia sbagliata: ci puoi camminare per ore, anche correre se necessario, ma a fine giornata i piedi ti fanno male comunque.
Plot twist
Poi, un giorno, capita qualcosa.
Incontri qualcuno che, per caso, parlando tira fuori un pensiero che sembra uscito direttamente dalla tua testa.
Niente di epocale. Solo una frase, una piccola osservazione. Un modo di vedere le cose che è esattamente il tuo modo.
E per la prima volta, dopo tanto, non ti senti più nel tempo sbagliato.
Capisci che continui ad essere una singolarità, ma una singolarità in mezzo a tante altre.
Inizi a scavare.
Trovi altre persone che replicano il modo di fare di quella prima persona lì.
Persone che guardano il mondo da ottiche particolari.
Persone che si sentono asincrone con il resto dell’umanità.
Persone che hanno passato anni a chiedersi se c’era qualcosa che non andasse in loro, solo per scoprire che non c’era davvero niente di sbagliato: erano semplicemente diverse. E sognavano per se stesse vite diverse.
Vite al di fuori del “È normale che sia così” o del “Così deve essere”.
Se cresci in un ambiente dove la normalità di condotta è un must, è abbastanza scontato che qualsiasi azione fuori dalle righe sia scomposta e valutata con occhio critico, e mai a cuor leggero.
Ma l’adattamento eccessivo nella vita porta solo a un altro eccesso: quello di infelicità.
Ti fanno credere di essere troppo: troppo seria, troppo profonda, troppo qualsiasi cosa.
E questo, alla fine, ha il paradosso di portare te a sentirti mai abbastanza, e a vivere di sensi di colpa per chi sei.
Quando l’unico senso di colpa dovresti averlo per non concedere a te stessə di vivere la TUA vita come ti pare, come senti che sia giusto viverla. E circondatə di persone che sentono e vivono esattamente uguale a te.
Trovare solitudini affini
Allora come le trovi, queste persone?
La risposta più onesta che posso darti è questa: non lo so con certezza.
Non c’è una mappa, un navigatore che ti porti lì dove devi.
Ma so che succede quando smetti di nasconderti.
Quando cominci a parlare di quello che ti appassiona davvero, senza filtri.
Quando smetti di fingere di essere entusiasta di cose che non ti toccano.
Quando accetti di essere considerata strana, diversa, fuori posto, perché sai che è il prezzo da pagare per essere te stessa.
Le tue persone ti trovano quando smetti di nasconderti.
A volte è online, in una community di sconosciuti che condividono la tua stessa passione.
A volte è in un corso, in un’uscita tra amici comuni, in un evento che ti fa pensare “Chi mai verrebbe qui?”. E poi vai, e capisci: persone come te.
A volte è semplicemente una persona incontrata per caso, con cui scatta qualcosa che non riesci a spiegare, ma che riconosci immediatamente.
Non ti servono 500 amici.
Ti bastano poche solitudini affini. Poche persone che ti guardano e dicono, senza parole: “Ti vedo. Per chi sei davvero. E va bene così.”
Se stai leggendo questo, probabilmente ti sei riconosciutə in qualcosa che ho scritto.
Forse anche tu hai passato anni a sentirti altro, a chiederti perché non riuscivi a essere come tutti.
Voglio dirti una cosa: non sei solə.
Non perché conosca la tua storia, o perché sappia cosa hai passato.
Ma perché so che là fuori ci sono migliaia di persone come te. Come me. Persone che si sentono diverse, fuori posto, troppo questo o troppo quello.
Il punto non è smettere di essere diversi.
Il punto è smettere di sentirsi soli in questa diversità.
Quindi smettila di nasconderti. Smettila di scusarti per chi sei.
Parla di quello che ami. Fai le cose che ti appassionano. Sii esattamente chi sei, anche se sembra che a nessuno interessi.
Perché là fuori c’è qualcuno che sta facendo la stessa cosa.
Qualcuno che si sente esattamente come te.
Qualcuno che sta aspettando di trovare la sua solitudine affine.
E quella persona potresti essere tu.
Questo posto qui su Substack è il mio piccolo spazio nell’etere, dove lascio andare i pensieri, per farli arrivare a chi li sente simili ai miei.
Nella vita reale sono una coach freelance e una formatrice.
Bevo un sacco di caffè.
Mangio troppa cioccolata.
Sogno tanto. Pure di giorno. Soprattutto di giorno.
Qui è dove racconto del mio lavoro in chiave Instagram, ma a modo mio. Con gentilezza, che di gente che urla ce n’è già troppa.
Qui è dove provo a rendere più umana, con i miei pensieri, una piattaforma che a dire il vero mi piace proprio poco.
Questa, infine, è la mia “casa virtuale”, quella che ho costruito da sola, pezzo dopo pezzo, con la mia storia. E dove trovi anche quello che potrei costruire insieme a te.




Oh, quanta verità. Grazie per questo scritto.
Razionalmente possiamo capire, oggi, le motivazioni profonde, direi biologiche, di tutto questo. Ma dentro e addosso al corpo sono appiccicate emozioni e memorie antiche, che la sola comprensione non può cancellare. E così ci troviamo qui, solitudini fra solitudini affini, ciascuna a elaborare il proprio vissuto, le proprie morti e rinascite interiori, e il proprio modo unico e diverso di vedere sé stessi, il mondo, la vita. Non c'è scampo. Per fortuna. Perché questa diversità vale la pena di essere vissuta.
grazie Laura. di essere diversa. è l'essenza di un umano che sa vedere, toccare, ascoltare e raccontare.